Giovedì, 18 Aprile 2024
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BELLE, SPECIALI, IMPORTANTI: UNA STORIA DI SPORT - PARTE SECONDA

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Oltre al legame d’acciaio che si era instaurato tra madre e figlie, avvenne un fatto singolare: sul far della sera, quando il cielo sopra al Colosseo si tingeva di rosso e il sole assomigliava al nocciolo di una pesca, salì sulla terrazza Dino Zoff. Si dice che molti fatti strani alla fine definiscano il destino, così, essendosi trasferita una cugina del grande campione proprio nel palazzo delle due sorelle, Barbara e Sara furono viste giocare da Zoff, che si era accomodato sulla panchina, proprio sotto una fioriera invasa dall’edera. Le due sorelle erano talmente prese dalla sfida che nemmeno se ne erano accorte. A un certo punto spuntò dalle scale la mamma, brontolando qualcosa sulla cena, pronta da un pezzo, così, alzando gli occhi, le raggazze notarono finalmente chi stava seduto a pochi metri dalla palla. Dino Zoff non faceva mai lunghi discorsi, era in realtà salito in terrazza perché la cugina cominciava a lamentarsi di tutto quel trambusto, e lei gli aveva chiesto di usare un po’ del suo fascino per limitare l’energia delle due gemelle, che sembravano davvero due maschiacci. Zoff, anche se aveva superato i settant’anni, manteneva intatta la stessa sorpresa di quando, giovanissimo, con i compagni arrotolava vecchi giornali e con un elastico li trasformava in un pallone di carta, così, invece di rimproverarle si avvicinò e, dall’alto del suo metro e ottantadue, sotto le ciglia folte e lo sguardo serio, lasciò sfuggire un mezzo sorriso:
- Come vi chiamate?
- Sara, rispose all’istante l’attaccante, le parole le uscirono dalle labbra in un morso di entusiasmo.
- E tu, che sembri un pirata con quella fascia sull’occhio?
- Barbara signore, lui le accarezzava la testa e lei, per guardarlo meglio si alzò la benda, il leggero difetto non sminuì i suoi occhi grandi di bambina, puri e sinceri.
- Parare è una vocazione e un sacrificio, continuò Zoff, e tu hai già la geometria giusta… volevo chiedervi di smettere, ma mi avete davvero sorpreso, uno contro uno ricordate la parte più bella del calcio.
Mentre la mamma si affrettava a scusarsi, ammettendo che non era opportuno fare tanto rumore sulla terrazza, non era il posto più adatto per grida e schiamazzi, Sara si affrettò a chiedere:
- Vorremmo vincere qualcosa signor Zoff, ce la faremo un giorno?
Allora lui, prima di andarsene, ci tenne a precisare:
- Vincere è anche questione di fortuna, bisogna trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Ho pensato molte volte a Giovanni Galli, che nel mondiale del 1986 mi sostituì, alle sue mille disavventure e al suo cuore grande, capace di sopportarle . Ripenso al gol fantastico di Maradona, al sole così alto quell’anno, era allo zenith e lasciava solo lo spazio di un’ombra minuscola, sfuggiva, si nascondeva sotto gli scarpini. Ci penso spesso e mi chiedo, dopo tutto quello che ho vinto, avrei parato il gol all’Inghilterra? Avrei sopportato un caldo così asfissiante? Quanto conta il destino e quanto il talento invece? Ma questi sono solo discorsi da vecchio, non sono adatti a due ragazzine che si divertono a giocare. Ogni posto è giusto per sognare, dietro una chiesa o su un terrazzo si vincono i mondiali più importanti.
Così le due sorelle videro Zoff scendere le scale strette che la mamma lavava ogni due giorni; salì sulla sua smart grigia e a loro quasi prese un colpo per la gioia di un momento che non avrebbero mai più dimenticato.


C’erano però due fratelli, più o meno della stessa età di Barbara e Sara, il più grande aveva un anno in più, il più piccolo un anno in meno, giocavano a calcio, frequentavano la stessa scuola e abitavano nello stesso palazzo, loro però erano ricchi e maschi; per gli allenamenti uscivano dal palazzo verso le quattro del pomeriggio, tre volte la settimana, vestiti con una divisa azzurra lucente, con gli scarpini chiodati già ai piedi. Aspettavano che il padre li raggiungesse nell’androne, qui davano un saluto distratto alla portiera, ma solo se costretti. Se invece nel gabbiotto c’erano le due gemelle che disegnavano o facevano i compiti, con l’aria strafottente dei grandi campioni le deridevano, rinfacciandogli che il calcio era cosa da uomini e non da donne. Si erano meritati un soprannome pittoresco, in fondo erano stati proprio loro a battezzare le due ragazze: gemelle malocchio. Per tutti erano noti come “gli scimmioni”. Portavano capelli ricci e folti, questi ultimi avevano preteso la licenza di crescere ovunque sui loro corpi, lasciando libera soltanto la fronte smisurata e i nasi adunchi. Il più grande aveva già la barba a quasi quattordici anni, il più piccolo aveva piedi enormi; entrambi indossavano pantaloni corti allacciati dalla corda della divisa alla vita, ne uscivano fuori gambe muscolose, ricoperte di lanugine aggrovigliata che conferiva loro un vero e proprio aspetto scimmiesco. Per povertà di spirito o per il tipo di presunzione che, a volte, una vita troppo agiata trasmette, credevano che la terra di un campo sportivo in qualche modo gli appartenesse.


Mentre gli scimmioni battevano calci d’angolo dalla lunetta e facevano scatti sull’erba sintetica del loro centro sportivo, per un ragazzino meno fortunato giocare a calcio voleva dire fare i cosiddetti dribbling di strada, cioè significava correre in piazza ed essere comunque immensamente felice, ma per le gemelle malocchio era anche qualcosa di più, voleva dire vincere, vincere sul campo e nella vita, dimostrando che si è forti più della sfortuna, più di un ragazzo. Così le gemelle, senza particolari forme da mostrare, dentro tute rattoppate e con la pelle nera come la sera per la polvere raccolta a furia di scivolate e cadute, coi capelli tagliati alla militare, erano diventate abbastanza forti per allontanarsi dalla loro terrazza e iniziare a confondersi coi maschi, passando alle piazze e ai campetti di fango. Soprattutto prima di cena, sotto i lampioni, mettevano alla prova i loro progressi evitando a zig zag buche e tombini. Le porte erano delimitate da giacche, zaini o quello che capitava. Per vincere erano disposte a tutto, ma solo su una cosa apparivano irremovibili: Barbara e Sara avevano e avrebbero sempre giocato insieme, come se nella squadra in cui capitavano ne esistesse sempre un’altra più piccola, più importante di ogni altra cosa al mondo. Iniziarono ad amare le strade bagnate dalle bolle di luce arancione dei lampioni.

 

Verso le sei e mezza del pomeriggio, col cappuccio di una felpa tirato sugli occhi riuscivano a non farsi riconoscere, nascondendo ai ragazzi che erano donne, perché altrimenti le avrebbero escluse. Non parlavano molto, giocavano e basta. Intanto sognavano che i mattoni larghi che avevano sotto i piedi un giorno sarebbero diventati il prato verde dell’Olimpico e dalle giacche o dai sassi sarebbero poi spuntati pali lisci e bianchi.
Però una domenica pomeriggio tornarono a casa ed erano inconsolabilmente tristi...

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Testata giornalistica registrata al Tribunale di Firenze il 15 settembre 2016  n. 6032.
Direttore Walter Pettinati - PROMOITALIA Editore.

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