DAL REDAZIONALE DI WWW.ALLENATORE.NET - DICEMBRE 2007

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RITROVARE I VALORI VERI PER RIASSAPORARE IL PIACERE DEL “CALCIO”. ROBERTO BONACINI – VALERIA DOLCI Ho voluto, in questo Redazionale, proporre qualcosa di un po’ diverso rispetto a quanto viene solitamente redatto. Quello che ho voluto fare è comunque un po’ riassunto nel titolo sopra riportato. Allenatore.net come ben sapete si occupa del calcio in maniera continua e professionale. Si occupa di tecnica, tattica, preparazione e di tutto quanto ruota, a 360°, intorno al fantastico mondo del calcio giocato. In questo mese di Dicembre però, considerando quanto accaduto, diciamo ripetuto, nel mese precedente, ben noti fatti extra-calcistici, ho creduto fosse importante aprire una piccola parentesi e mettere tra queste pagine un qualcosa che leggendolo potesse (non tanto fare riflettere, ad ognuno la propria testa e le proprie idee) farci per un attimo riprovare qualche sana, vera e vitale emozione. Almeno questo è quanto io ho provato leggendo il brano che viene di seguito proposto, dove, alla fin fine, anche da una esperienza di una bambina che vive, cresce e diventa adulta con il calcio nei piedi e nel cuore, ogni lettore può provare a ritrovare i valori veri per riassaporare il piacere del “calcio”. La parola, o meglio la penna, a Valeria Dolci emergente e graffiante scrittrice, che ringrazio per il brano concesso ad Allenatore.net. E’ per un motivo semplice che mi introduco tra le parole specifiche di tecnica calcistica: il coraggio di esprimere emozioni. Che siano belle o brutte poco importa ma che producano un movimento, questo è il vero obiettivo. Perché queste emozioni possano (tra rimbalzi e palleggi, colpi di testa oppure di tacco) dribblare la corruzione (che ci fa preferire un fallo o uno sgambetto a tradimento, piuttosto che il dare una mano a rialzarsi ad un avversario che finisce a terra) e segnare quel punto che tanto ci manca e che sta ad ognuno di noi trovarlo. Come un sasso ben lanciato in acqua crea un susseguirsi regolare e crescente di cerchi intorno a sé, capaci di incantare ed emozionare chi li guarda, così un gesto ben fatto può semplicemente propagare intorno a sé una serie di imitazioni, paradossalmente tutte originali. Riportare l’attenzione su un emozione e sul motivo che la fa nascere può essere un inizio, un nuovo fischio che stiamo aspettando, di petto, di fiato preso a pieni polmoni, di un aria non viziata dall’ipocrisia, dal potere, dal denaro. Ci vuole un pallone nuovo, un sassolino lanciato bene perché possa creare il vero spettacolo. Ma tutto dipende da quel coraggio che è dentro di noi. La vera maglia da indossare”. Vittoria o Sconfitta Continuavo a urlarglielo di non lasciarmi troppo presto. Non ce l’avrei fatta. Avevo paura e immaginavo con un po’ di terrore come sarei caduta, se mi sarei spellata soltanto le mani o se mi sarei bucata un ginocchio, quanto avrebbe fatto male…e speravo me la sarei cavata così senza rotture. Il cuore batteva forte e la paura annebbiava le mie decisioni. Volevo mi fermasse ma non riuscivo a dirglielo. Mio nonno era deciso quanto me ma nel caso contrario, io volevo smettere mentre lui voleva che continuassi. Eppure mi sentivo così bene tra le sue braccia forti, non mi avevano mai deluso, sempre protetto, non volevo mi lasciasse, volevo avere anche io braccia così forti, mani rassicuranti che potessero scegliere cosa fare, ma che soprattutto potessero aiutare qualcuno come lui stava facendo con me. Poi ad un tratto mi sono sentita leggera, non ancora in equilibrio, non ancora sicura ma convinta di voler imparare e ad un tratto volai sulle mie paure e comandai sempre più prepotentemente quelle due ruote di una bicicletta sgangherata che sarebbe ben presto diventata il mio mezzo preferito e pericoloso sul quale provare tutte le mie paure. Questa è stata la mia prima vittoria da che mi ricordo. Da quel momento in poi al campetto da calcio potevo andarci da sola…e ho iniziato a capire che nella vita ci sono delle priorità e che alle cose ci si arriva per gradi…Era innanzitutto importante saper andare in bici e dimostrare una certa indipendenza per raggiungere il campo così che potessi andarci ogni volta che volevo…e potevo andare ovunque con quel mezzo. In quell’ “ovunque” che al tempo potessi immaginare. Mi ero stancata di dribblare, non sempre senza difficoltà, gli alberi del giardino di mia nonna. Mi ero stancata di immaginare un portiere che parasse i palloni che lanciavo. Ero troppo buona, lasciavo sempre vincere il portiere di un goal di scarto. Anche i difensori alla fine erano bravi. Altissimi, verdissimi, e stronzissimi perché troppo spesso lasciavo loro la possibilità di fermare la mia furia e il mio piede infuocato. Ma la loro tattica di gioco sempre uguale mi aveva comunque annoiato. Volevo persone vere. Nonostante trovassi spesso nuovi palloni per me, probabilmente troppo usati o dimenticati da altri, riuscivo comunque a perderli continuamente. Mi arrangiavo però molto spesso con altre cose. Eh sì perché non avevo un pallone per ogni posto in cui andavo e non capisco perché non me lo facevano portare ovunque andassi, come desideravo. Da qui la mia passione per ogni pallone di qualsiasi dimensione, sicché se andavo in giro coi miei genitori o in negozi in cui la vista di un pallone era motivo di terrore, mi aiutava portarmi una pallina piuttosto che una palla; ad ogni rimbalzo la nascondevo e mi ribellavo alla noia del momento. Se mancava la palla fisicamente, come in casa, arrotolavo un calzino, ne indossavo altri due per improvvisare scivolate spericolate che diventavano, partita immaginaria dopo partita immaginaria, sempre più precise. Queste calzini erano poi i miei preferiti per i turni di notte in quanto la spugna rendeva silenziosi i movimenti in un campo di ceramica, solitamente bianco piuttosto che verde. Guardavo spesso ragazzi più grandi di me comporre poesie col pallone e per me era una fortuna poterli osservare meglio da vicino. Volteggiavano con il pallone, lo palleggiavano tra un piede e l’altro come se lui avesse i fili per far muovere il ragazzo piuttosto che il contrario… sembrava così facile… provo io. Due. Ci riprovo. Tre. Non ci riesco. Perché è così difficile? Ho chiesto a qualcuno come si doveva fare, ma me ne sono vergognata quando ho sentito nervosismo e stizza nell’insegnare a me una cosa prettamente maschile. Mortificata ci ho riprovato. Sempre tre, ma ce la posso fare. Potevo imparare come avere delle mani abili, braccia forti.. potevo fare uguale con i piedi. Perché non potevo? Cosa avevano i miei piedi di così diverso da quel ragazzino? La mia prima sconfitta mi ha reso più forte nella mia fragilità interiore. Non era migliore di me quel ragazzo; aveva soltanto iniziato prima e la mia fortuna era poter imparare. Ma non potevo dimostrarlo ancora. Troppo spesso alla vittoria dell’essere positivi mi si accompagna la realtà della sconfitta: non riuscirci. Alla vittoria c’è sempre la delusione di cadere…nella sconfitta. Ho imparato le scivolate anche per questo…A piccoli passi, un po’ per fortuna un po’ perché semplicemente doveva accadere, dopo varie proposte di squadre di categoria e non, ho formato poi la mia di squadra. Ho fatto le mie scelte e potrei essere banale nel dire che avevo già vinto quando iniziai a giocare a calcio sul serio, con allenamenti veri, con persone vere, e affrontare una reale partita tra persone; invece mi ritrovai ancora più affamata di vittoria, di esultare dopo il goal o di esaltarmi per aver difeso un pallone ormai certo nella rete della mia squadra. E la sconfitta, si sa, fa male. Quando perdi fa male comunque, non ti importa soltanto “aver partecipato”. Si vuole dimostrare quanto si è bravi. Ma non sapevo ancora cosa stavo veramente perdendo. Sto cercando tra gli angoli più bui della mia mente quali parole utilizzare per spiegare questo concetto senza ritrovarmi sul luoghi comuni e banali riflessioni. La verità è che subito pensai di aver vinto da sola quando portai i punti di una vittoria avuta grazie alle mie reti, e mi arrabbiai quando perdemmo dopo innumerevoli fatiche, cercando di difendere bene il pallone, vanificate con la rete a vantaggio della squadra avversaria. Il portiere non seppe fare il suo dovere. Ma le parole, a volte incastrate nella giusta frase, pronunciate con il giusto tono di voce, e sparate alla velocità giusta per colpire, sanno aprirti porte sconosciute e inaspettate nel labirinto delle emozioni. Anche quelle che fanno più male. Capii che l’errore nasceva molto più in là della nostra porta, là dove c’ero anche io. Là dove anche io avrei dovuto calcolare meglio la difesa, usare tecnica e risaltare lo stile per arginare l’errore di non aver tenuto la palla. A quel punto la sconfitta dilagò dagli occhi dei compagni fino ai miei. “Si vince come squadra. Si perde come squadra”. Ma quanto davvero crediamo in queste parole? La sconfitta più grande fu trovare dentro di me questo tipo di presunzione in un gioco che si basa sulla fiducia, come lasciarsi andare su una bici accompagnati da una mano dietro la schiena, sapendo che solo quando la mano ti lascerà andare, solo quando più ne sentirai l’appoggio e te ne fiderai, quanto più riuscirai a volare. E con questa fiducia trovai la vittoria. Osservai di più come un tifoso sulla curva piuttosto che come giocatore, ascoltai i miei compagni piuttosto che le urla nelle tribune e cercai di dare maggiore attenzione al mio cuore, a quanto si emozionò per una bella parata, alla scossa tra i muscoli quando il mio difensore evitò una catastrofe in area, una liberazione di energia passare la palla per il goal...e cominciai a volare. Imparai che la squadra è quella mano che ti sostiene, che ti lascia andare nel momento in cui puoi andare da sola, ma è sempre pronta a riprenderti prima che tu possa cadere e ad accompagnarti coi movimenti in ogni tuo spostamento. Un legame invisibile. La vittoria è stata far luce sullo spirito di questo gioco, rincorrere non solo un pallone ma certi principi, è fermarsi a riflettere non soltanto quando lo dice l’arbitro per fermare il gioco scorretto, è dare un ordine alle cose, è fermarsi a guardare quel che esce dalle nostre azioni, non è soltanto lavarsi dell’erba che ci ha sporcato ma più che altro condividere un momento di squadra in cui pulirsi di pensieri scorretti, parole usate per colpire, gesti fatti per un proprio tornaconto. E stavolta è trovare con la sconfitta una nuova vittoria.