Domenica, 28 Aprile 2024
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La parola a Silvia Paio

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paio_silviaPremetto che sono un po' di anni che non gioco più a 11, mentre sono rimasta nel calcetto a 5. Vorrei provare a rispondere alle tue domande esprimendo umilmente la mia opinione dopo essere per molto tempo interessata all'argomento anche per i miei studi sociologici.

Io stessa ho un'esperienza in merito. Mi sono avvicinata al calcio femminile all'età di 14-15 anni, mi piaceva fare il portiere, ho giocato in una squadra di serie D per un anno, fatto un campionato di serie C per poi finire in serie B al La Chivasso e al Toro in serie A.
 

Credo che vadano fatte 3 considerazioni distinte e separate, almeno inizialmente, per poi congiungersi essendo irrimediabilmente legate una all'altra. La prima è di tipo sociologico o culturale  per capirci e riguarda la mancata socializzazione al calcio femminile delle ragazzine in tenera età che si riscontra in quasi tutti i paesi mediterranei, ma di cui caso emblematico è l'Italia con la sua impronta cattolica e una struttura familiare, sottosistema del sistema sociale più ampio, centrata su una stretta separazione dei ruoli di genere all'interno della famiglia che si riflette sul livello macro e cioè sulla società in generale. Nello specifico, da sempre l'Italia , rispetto ai paesi nordici ( Svezia, Finlandia, Olanda, Danimarca) ha attribuito un ruolo alla donna come caregiver, che si occupa della gestione degli affetti, della cura dei figli e dei genitori, dei compiti domestici conforme ad un modello culturale di pretesa universale e socialmente condiviso basato sul male breadwinner e cioè sull'uomo come procacciatore di reddito che si occupa del sostentamento della famiglia; secondo quest'impianto, che ripeto è una questione culturale di parità che quindi manca già a livello familiare considerato il livello base e portante dell'intera società, per secoli anche le attività sportive, considerate lo svago dal lavoro, il vero lavoro, cioè quello maschile e non quello " domestico" , erano considerate una prerogativa maschile. Di questo è prova il fatto che pur nascendo come sport d'élite nei college inglesi del XIX secolo, si diffonde poi come sport delle classi lavoratrici dell'Inghilterra industrializzata e esportato nei paesi mediterranei dagli emigrati inglesi. Dunque essendo la classe lavoratrice di quegli anni tipicamente impiegata nelle fabbriche, il calcio come sport fisico e faticoso ben si associava all'ideale di uomo prestante sul lavoro e nello sport, anche come icona di una società ricca e prospera; l'uomo –atleta incarnava l'ideale della nazione con il suo fisico scolpito da un lato e dall'altro l'uomo che fa un lavoro faticoso e trova nel calcio una valvola di sfogo ideale.

E' vero che l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro ha cambiato o tentato di modificare i ruoli all'interno della famiglia iniziando  quel percorso di emancipazione femminile che la porterà a svolgere occupazioni prima prerogativa maschile e a ritagliare spazi di autonomia prima sconosciuti, ma questo è dipeso da una logica economica, da un cambiamento strutturale legato al capitalismo post industriale , è stata cioè una necessità esogena, non è dipeso da un cambiamento culturale o da una presa di coscienza della donna italiana.  Questa è avvenuta semmai successivamente.E quindi se è vero che la rigida separazione dei ruoli nella società italiana cattolica, il modello male breadwinner, la scarsa presenza delle donne in attività sportive come il calcio considerate prerogativa maschile, sono state smussate dai cambiamenti strutturali epocali legati al capitalismo e all'espansione dei mercati ( anche la nicchia del mercato legato al calcio femminile, che resta comunque una fetta minoritaria del mercato sportivo in generale) è rimasto un modello culturale definito e pervasivo che non è stato intaccato dalle logiche esterne. Tant'è che se da un lato la nuova immagine della donna  contemporanea è  oggi confermato dal fatto di essere impegnata in un lavoro a tempo pieno, dall'essere spesso una professionista al pari del proprio marito che si  può scegliere in autonomia di dedicarsi allo sport e magari al calcio, quest'immagine contrasta con un'aspettativa sociale tutta italiana che sia comunque lei ad occuparsi interamente dei compiti domestici e della cura di discendenti e ascendenti. Ciò crea una situazione culturale e sociologica perché tratto caratterizzante della società italiana in cui la donna tesa tra le aspettative sociali di cura e  il ruolo professionale non può soddisfare quel bisogno di una vita conforme agli standard contemporanei  fatta di autonomia, scelta personale, attività gratificanti e cura del proprio corpo anche a livello sportivo. In questo senso il calcio, faticoso e per certi versi sgraziato,  già  storicamente considerato attività maschile per le motivazioni spiegate sopra, non si associa all'ideale femminile di donna premurosa e dedita alla cura della famiglia tipica della società italiana intrisa di cattolicesimo e moralismo.

Il passaggio da questo modello alla mancata socializzazione delle bambine al calcio anche nella nostra epoca storica sufficientemente emancipata è molto comprensibile dal momento che è la famiglia il primo attore intermedio a giocare un ruolo significativo nel permettere, consigliare e vivere senza contraddizione il fatto che le proprie figlie decidano di intraprendere una simile carriera sportiva ( di qualsiasi livello essa sia). Se è vero che le cose negli anni sono cambiate rispetto al passato e oggi le donne sono molte di più di vent'anni  fa, esistono molte più scuole calcio, molte più squadre, molto più giocatrici professioniste " di fatto" anche se purtroppo non riconosciute e molta più massmediatizzazione di questo sport  in Italia, l'impronta culturale resta ancora troppo forte, per i motivi di cui sopra, e influenza la visione della gente con vecchi pregiudizi esemplificati dalla frase " non è uno sport per signore" che spesso andiamo ripetendo e che lungi dall'essere una frase banale e ignorante riassume e riflette nel senso comune, come ho cercato di  spiegare, tutta una serie di motivazioni storiche, economiche, culturali e quindi sociologiche e di cui ancora oggi è prova lo stupore con cui la gente comune reagisce di fronte a una donna che gioca a calcio.

Questa mia argomentazione sociologica su cui ho insistito e che per me è la base di tutto ed anche il fondamento per la seconda e la terza considerazione che farò più avanti,  tecnico-sportiva e massmediatico-economica, si comprende ancora meglio se facciamo un paragone tra i paesi nordici : in essi c'è una concezione della famiglia diversa da quella italiana in cui lo stato sociale e il sistema dei servizi di cura alla persona si sostituisce alle famiglie che rispetto a quelle italiane non sono gravate dagli oneri domestici e quindi anche le donne hanno maggiore spazio di autonomia, di scelta, di realizzazione; in sintesi si può parlare di una parità tra i sessi a tutti i livelli che si riflette quindi anche nell'ambito sportivo dove il calcio non è prerogativa di alcuno dei due , per cui ,al di là del maggiore impatto mediatico che può avere la nazionale svedese maschile rispetto a quella femminile, ciò è solo una questione economica globale e non culturale specifica, come succede invece in Italia.

La seconda considerazione che faccio e che dipende dalla prima e si intreccia poi alla  terza riguarda il livello tecnico dello sport calcio femminile in Italia e la sua inesorabile debolezza: il fenomeno è recente, sempre per i motivi di ordine culturale  e sociale di cui sopra, quindi l'attivazione del settore sportivo in quest'ambito non è avanzata, non può contare su un'organizzazione compatta e strategicamente orientata a una preparazione competitiva a livello Europeo e ancor meno mondiale. C'è cioè una scarsa conoscenza di quella che dovrebbe essere la preparazione atletica di una donna calciatrice, delle sue esigenze fisiologiche e spesso si fa l'errore di trasferire il modello del calcio maschile a quello femminile che per quanto mi riguarda, sia per differenze fisiche indubbie sia per una questione culturale che influisce sull'assenza di un'adeguata e similare preparazione tattica e concettuale al gioco stesso, è un altro sport. Non può essere paragonato al calcio maschile, né più bello, né più brutto, ma diverso. Io stessa ho un'esperienza in merito. Mi sono avvicinata al calcio femminile all'età di 14-15 anni, mi piaceva fare il portiere, ho giocato in una squadra di serie D per un anno, fatto un campionato di serie C per poi finire in serie B al La Chivasso  e al Toro in serie A. In tutti questi anni la mia formazione atletica da portiere è avvenuta senza un preparatore specifico e competente, molte cose le ho apprese solo con l'esperienza e grazie a mio padre che mi allenava in solitaria. Per anni i miei allenamenti si sono basati su una parte atletica con la squadra, qualche addominale con palla se c'era il tempo, e tiri in porta più partitella. Si comprenderà bene come la mia sia fondamentalmente una preparazione da autodidatta quasi in cui molto è dipeso da me, dalla mia capacità di immagazzinare osservando, dalla curiosità, dalla voglia di allenarmi anche al di fuori della squadra, guardando le partite con mio padre.

Insomma la mia preparazione non è stata certo paragonabile a quella di una ragazzino che inizia molto prima avendo tutto un panorama di squadre negli oratori, nei centri sportivi, di reti di conoscenze e persone che hanno già figli che giocano ( cosa che io ai tempi non avevo: c'era scarsa informazione, non conoscevo altre ragazze, giocavo al parco con gli amici e sono arrivata al New Athletic quasi per caso, perché una ragazza si è fermata alla Pellerina e avendomi notata mi ha chiesto se volevo provare da loro), in secondo luogo il ragazzino può contare da subito su un'organizzazione molto più efficiente ed efficace, con uno stuolo di preparatori atletici, allenatori, dirigenti competenti e nel settore da anni. Ne consegue una preparazione non sporadica o dipendente dal numero di persone quella sera presenti all'allenamento ( sono sicura che a molte delle mie colleghe sia capitato di aver fatto poco allenamento o un allenamento completamente diverso perché quella sera si era in poche), ma codificata, organizzata, strutturata.

Alla luce di questo è ovvio che le ragazze siano meno " educate" al calcio di quanto non lo sia un coetaneo che lo mastica in tutte le salse e in una modalità più professionale.  A ciò si aggiunge il fatto che come ben sappiamo il calcio femminile non è professionista neanche a livello di serie A, e ciò crea due effetti che acuiscono questa " inferiorità" di preparazione generale se confrontata a quella maschile e le conseguenti possibilità di  puntare in alto: da un lato infatti le ragazze giocatrici della serie maggiore hanno gli stessi oneri dei colleghi maschi ( allenamenti, doveri, responsabilità, presenza), ma non possono contare né su garanzie mediche equivalenti ed efficienti dello stesso livello in caso di infortuni, né di uno stipendio che gli permetta di mantenersi almeno minimamente. Quindi, come nella famiglia, da un lato si devono reggere ritmi di allenamenti, partite e trasferte estenuanti più gli impegni ufficiale di squadra, dall'altro la maggior parte della giornata è dedicata al lavoro " vero", quello che si fa per mantenersi, e anche nel caso di ragazze studentesse, conciliare il tutto diventa difficile se non si ha anche un'entrata economica.

Ricordo benissimo io stessa che quando giocavo al Toro mi era difficile seguire tutte le lezioni se a una certa ora dovevo prendere il bus per riuscire ad arrivare a Venaria in tempo per l'allenamento, mi era difficile dare gli esami con tutte quelle lunghe trasferte che mi portavano via tempo ma non me lo restituivano con un contributo economico sufficiente agli spostamenti molto spesso non coperti, o un minimo da tenermi se sforando con l'università per il poco tempo avessi dovuto pagarmi qualche rata in più. E vedevo la difficoltà, la stanchezza delle mie compagne lavoratrici che per le trasferte talvolta erano costrette a prendersi dei giorni di riposo dal lavoro o non potendolo fare dovevano rinunciare. E' chiaro che non si gioca per soldi, ma arrivate a certi livelli, se ci è richiesto di sacrificare una fetta della nostra vita per praticare uno sport dedicando sudore, cuore e fatica a tempo pieno e non più come un hobby a tempo perso..ci devono essere date anche delle garanzie, dei benefici che  arrivate a 30 anni con una famiglia e delle bollette da pagare, non possono essere solo la gloria sportiva. Che poi, in senso stretto, neanche arriva visto che in Italia è idolatrato solo il calciatore uomo, quindi più che gloria sportiva, gloria personale legata al proprio sport.

Questa situazione crea un circolo vizioso per cui la stanchezza della giornata lavorativa, associata agli allenamenti che inevitabilmente avvengono in orario serale non può che far rimanere la preparazione su un livello " dilettantistico" sebbene , come già detto, il cuore e l'impegno della maggior parte delle ragazze renda vuota questa parola. Come possono essere preparata le donne di serie A al pari degli uomini di serie A  mi chiedo io se questi possono farsi operare nei migliori ospedali del mondo e riprendere l'attività immediatamente, se questi non hanno null'altro da fare durante la loro giornata se non allenarsi e pensare al loro ruolo di " calciatori", se questi possono contare su un'entrata economica che gli permette di vivere di questo e quindi farlo " al meglio" proprio come un lavoro da professionista? Non è possibile. E' evidente. Nel mondo del calcio femminile le ragazze sono prima di tutto donne lavoratrici o studentesse e poi calciatrici e questo impedisce irrimediabilmente la possibilità di rendere l'attività sportiva professionista.

Ciò evidentemente si lega alla terza considerazione che farei: quella economica e legata ai media. E' certo infatti che sono gli interessi televisivi, il giro di affari di miliardi di euro che esiste attorno al mondo del calcio maschile a rendere questo gap incolmabile e questo è sia effetto della diversità dei due calci dipendente dalla diversa preparazione che fa degli atleti uomini dei professionisti che fanno " solo questo " e quindi possono avere rendimenti e prestazioni eccelse nonché rendere più spettacolare la partita in sé,  sia causa del gap stesso, nella misura in cui finchè il giro d'affari resterà collocato in quell'ambito e i media continueranno a vendere al pubblico il prodotto " calcio maschile" la clientela continuerà a rimanere legata a quest'idea di maggiore spettacolarità che in parte può essere vera per le motivazioni di cui sopra, ma in parte è pilotata dall'alto..da un mercato che si auto genera continuamente nutrendosi di tutto ciò che ruota attorno al calcio maschile, compreso il giocatore come icona dell'uomo-atleta-perfetto.  Quando sappiamo bene che la spettacolarità è in realtà solo di potenza fisica, dato che fisicamente la donna, avendo un baricentro più basso, ha maggiore controllo sugli arti inferiori quindi potenzialmente maggiori qualità tecniche. Dunque se la preparazione fosse stata da sempre nella storia identica per uomini e donne, non sono certa che questa differente spettacolarità, sui cui resto comunque dubbiosa anche oggi, esisterebbe.

Le mie conclusioni sono quindi che gli unici due modi per invertire questa rotta, questo gatto che si morde la coda di motivazioni culturali, economiche che si intrecciano e lasciano il calcio femminile nell'ombra volutamente e ignorantemente, perché non sanno capire quanto lo sforzo e l'impegno che sta dietro una partita o un allenamento di donne possa essere più bello e spettacolare proprio perché legato solo al cuore e alla volontà,  sarebbe 1) un cambiamento culturale epocale che cominci dal basso educando la società anche tramite il confronto con altri paesi europei,  così la maggiore attenzione pubblica richiamerà l'interesse economico e il settore potrà via via espandersi passando attraverso l'attenzione dei media alla sua professionalizzazione a livello istituzionale, ma è una strada che implica tempo e pazienza, oppure 2)servirebbe una rivoluzione shoccante, una decisione dall'alto di qualcuno che si attivi, si impegni a far passare una legge sul professionismo, così una volta messe nero su bianco le regole, i diritti soprattutto..allora tutto il resto verrà da sé, anche il cambiamento culturale e la maggiore sensibilizzazione e attenzione allorché, divenute professioniste, le donne calciatrici irromperanno sulla scena pubblica e non potranno essere ignorate in nome di un presunto ritardo culturale femminile sulla disciplina, che pure esiste. Non so quale delle due soluzioni sia migliore, a breve termine direi la seconda.. ma per un progetto di lungimirante trasformazione bisognerebbe coinvolgere tutti in direzione di una trasformazione lenta che investa società, media e istituzioni attraverso una serie di piccoli riconoscimenti via via sempre più importanti. Certo è che finché anche negli altri ambiti della società rimarrà questa visione stereotipata della donna calciatrice come figura anomala sarà difficile attirare le attenzioni del pubblico, quindi del mercato e quindi creare quella possibilità, unica, di rendersi visibile e ottenere diritti e riconoscimenti. Sono i modelli che pilotano la visione della gente e se il mercato del calcio maschile alimenta questo modello culturale tutto italiano del calciatore uomo, sarà impossibile che si crei un fenomeno analogo in senso femminile.

Del resto il bello del calcio femminile, si dice sempre, è proprio il fatto che molte di noi hanno lottato, faticato, sudato, ci hanno creduto..senza garanzie, senza benefici che non fossero " solo" praticare lo sport della propria vita e più bello de mondo, e fare di questo una palestra per la vita là fuori dove ogni giorno tante donne devono lottare per vedersi riconosciuto un posto dignitoso nella società. Il professionismo è auspicabile e doveroso per i motivi che ho detto e per l'ingiustizia e la frustrazione di non vedere mai riconosciuto il proprio impegno e valore, ma se sfociasse nella logica unicamente del mercato che attira gli interessi dei consumatori  e quindi la sensibilizzazione conseguente, forse perderebbe quel velo di autenticità e purezza che ancora lo contraddistingue. Per questo dico che la sensibilizzazione è importante che parta dal basso, dalle persone, dalla gente comune, prima che dai livelli alti. Lo shock di una decisione dall'alto sarebbe utile come inizio, ma non se fine a stessa e con la pretesa di un cambiamento facile e immediato perché non si cambiano modelli e valori culturali sedimentati nelle menti collettive per secoli  in un secondo.  Ci vogliono anni e anni e molti cambiamenti già sono avvenuti e sono sintomo della caparbietà di quanti ci hanno voluto provare mettendoci il cuore.

Mi scuso per la lunghezza, ma ci tenevo a dire tutto ciò che pensavo.

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Testata giornalistica registrata al Tribunale di Firenze il 15 settembre 2016  n. 6032.
Direttore Walter Pettinati - PROMOITALIA Editore.

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