Sabato, 27 Aprile 2024
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BELLE, SPECIALI, IMPORTANTI: UNA STORIA DI SPORT - ULTIMA PARTE

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era accaduto quello che temevano di più; non era la tristezza per una partita persa, era la tristezza di essere state smascherate, proprio nel momento più bello che avevano mai vissuto. Alle 11.00 di mattina in punto avevano raggiunto, come molte volte prima, Villa Pamphilj. Qui tutti i ragazzi si ritrovavano per una sfida avvincente. Ai margini del percorso dedicato ad Abebe Bikila, il grande maratoneta che vinse a piedi nudi le olimpiadi di Roma ’60, su una vasta zona verde delimitata da platani e pini libanesi, ci si scontrava per conquistarsi il diritto di gioco. I vari campi erano più che altro immaginari, non c’erano linee o delimitazioni chiare, e per questo apparivano ancora più affascinanti, perché ognuno ci fantasticava sopra. Uno era il Bernabéu, un altro il Camp Nou e così via, ma in un ordine ben noto ai partecipanti, i vari rettangoli verdi erano assegnati in base alla forza dimostrata sul campo. La squadra di ragazzi e delle gemelle malocchio era composta da otto tredicenni affamati di sport e di avventura. Per la prima volta era riuscita ad avere la meglio su attempati giocatori di età indefinite, abili e assidui frequentatori del parco. Tutti avevano praticato campi sportivi e, fino a quella mattina, avevano difeso il primato di squadra imbattibile. Un nugolo di spettatori si era assiepato ai margini del campo principale, alla fine della salita che sovrasta il lago e si trova alle spalle del giardino principale della villa, volevano assistere a questa sfida preliminare, che durava di solito una ventina di minuti e terminava col primo gol segnato. Vedere dei ragazzini muoversi in modo così agile tra le gambe di uomini più forti ed esperti era davvero un grande spettacolo. La gioia immensa per un’impresa memorabile durò troppo poco però. Addirittura c’era il selezionatore di un famoso circolo sportivo tra i perdenti, che stava facendo i complimenti alla squadra delle gemelle; raccontava di Davids e Zidane, due grandi campioni che amavano confondersi con i ragazzi di strada, indossando occhiali scuri per non farsi riconoscere e per gustare l’emozione sincera di una partita più vera di quella giocata in uno stadio. Anche Barbara e Sara, pensando al loro segreto, si erano sentite elettrizzate dalle sue parole, ma il circolo sportivo del selezionatore era lo stesso degli scimmioni, lì presenti, confusi tra il pubblico. Passarono pochi istanti perché, questi ultimi, riconoscendole non sputassero in faccia al mondo intero la verità. Bastò il grido: “Sono solo due ragazzine quelle, così brutte che fanno finta di essere maschi, sono le gemelle malocchio!”, e tutto cambiò.
Dopo un istante di assoluto silenzio, dopo aver visto il buco nella folla che si era aperto intorno a loro, percepirono lo stupore mutare in sdegno negli stessi giovani compagni di molti pomeriggi di sport. Un alito di vento lasciò frusciare di invidia l’erba del prato, e accompagnò la corsa veloce e rabbiosa di Barbara e Sara tra la pioggia di risate e frasi poco lusinghiere sulle donne calciatrici; cercarono di non sentire, correndo più forte tra i pini ai bordi del viale verso l’uscita di via Vitellia. Cercavano di rammentare la prima volta che avevano sgonfiato un pallone per calciarlo con maggiore velocità. A mente ripetevano la frase che ogni sera la mamma dedicava loro: “Voi siete belle, voi siete speciali, voi siete importanti”, ma le lacrime non smettevano di scendere, si vedevano solo come due bambine spavalde, ma a cui la strada aveva insegnato a piangere.

Passarono due settimane, la portiera aveva la busta in mano, con dentro la lettera che non sapeva più se imbucare o meno. Ripensava alla cattiveria dei fratelli scimmioni, erano ancora troppo ingenui in fondo, però avevano strappato alle figlie la gioia di entrare a far parte di una squadra vera; lei non possedeva seicento euro per iscriverle a una scuola calcio, per offrire loro qualcosa di meglio. Una volta Sara era tornata a casa così spaventata perché a furia di provare punizioni aveva rotto il finestrino di una macchina e, per la vergogna, si era mangiata le unghie fino a farle diventare rosse di sangue. La busta scivolò dentro la cassetta rossa. Si udì un colpo violento, per un istante la portiera si spaventò, fantasticando sui sogni che si infrangono portò la mano sul petto, ma poi si accorse che era mezzogiorno e, il frastuono del cannone del Gianicolo riecheggiava in lontananza, infilandosi dentro le sue preghiere.

Gentile signor Zoff,

pensavo alle mie figlie, ai loro dribbling di strada e alla tristezza di un compleanno passato in casa a guardare la televisione, nonostante il sole fosse alto e, come sempre, così invitante sulla nostra terrazza; provo allora a scrivere questa lettera, rammento la volta che ci ha conosciuto, ripenso al suo sguardo ammirato, ai suoi suggerimenti sul gioco e a tutto quello che è successo dopo. Perché le mie ragazze non saranno mai brave come i ragazzi. Tutti pensano questo, anzi, ne sono certi!
Provo allora a chiederle aiuto, e vorrei farmi forza con l’immagine di un film straordinario: Million Dollar Baby. Vorrei che Barbara e Sara avessero un’occasione, magari per diventare come la Margaret del film. Lei si sentiva fuori posto, sola, proprio nel giorno del suo compleanno, alla fine di una serata passata in palestra, ma col sorriso di un angelo caduto nell’inferno degli uomini della boxe. Senza grazia, senza coordinazione, stringeva i pugni e tirava cazzotti al destino. Le lacrime scendevano invisibili, sotto la pelle, nella consapevolezza di non avere altri sogni da inseguire se non attraverso uno sport fatto di sfida, affermazione, rabbia. Le stesse lacrime, sono convinta, scorrono anche sulle guance delle mie due ragazze, che combattono contro l’indifferenza di molti uomini nel calcio. Margaret sapeva che non sarebbe finita al tappeto senza combattere: voleva la sua possibilità. A un certo punto nel film arrivano le parole di questa scena, che mi danno una speranza e completano il quadro. Il signor Dunn (Clint Eastwood) si avvicina alla pugile che continua ad allenarsi, nonostante lui avesse sempre rifiutato di seguirla, proprio perché donna e avesse continuato a ripetere a se stesso tutti i giorni: “che diavolo poteva capire una donna di pugilato?”. Eppure lì, davanti ai suoi occhi coglie per la prima volta l’essenza di un animale ferito. La vede ostinata, ignorata o derisa, capisce che per lei non conta il giudizio degli altri, le basta stringere i denti e tirare pugni, quasi fosse un modo di riflettere, di brandire una spada, di essere più valorosa, più appassionata, più viva. Ecco il dialogo più toccante. L’allenatore si avvicina e le chiede:

- Così è il tuo compleanno, quanti anni compi?
- Compio trentadue anni signor Dunn e festeggio il fatto che ho passato l’ennesimo anno a lavare i piatti e a fare la cameriera. Cosa che faccio da quando ho compiuto tredici anni e, secondo lei, dovrò compierne trentasette prima di diventare un pugile decente. E dato che è un mese che tiro pugni a questo sacco veloce senza risultati; comincio a rendermi conto della verità. L’altra verità è che mio fratello sta in galera, mia sorella truffa la previdenza sociale, fingendo che suo figlio sia ancora vivo, mio padre è morto e mia madre pesa oltre centoquaranta chili e, se dovessi ragionare a mente fredda, dovrei tornare a casa, trovare una roulotte usata, comprare una friggitrice e dei biscotti. Il problema è che mi sento bene soltanto quando mi alleno. Se sono troppo vecchia, allora non mi resta niente. Le basta come spiegazione?
- […] Ti farò vedere un paio di trucchetti e, poi, ti cercheremo un allenatore.
- No. Lasci stare.
- Vuoi anche dettare tu le condizioni?
- Sì signore! Perché so che se sarà lei ad allenarmi diventerò una campionessa. L’ho visto come mi guarda.
- Sì. Con pietà…
- No. Non mi dica così. Non deve dirmi così se non è la verità. Io voglio un allenatore, non voglio l’elemosina e non voglio che mi faccia favori. E se non è interessato, vorrei continuare a festeggiare.
Il signor Dunn non aveva potuto che iniziare ad allenare il miglior pugile che avesse mai incontrato.
So che è solo un film, ma è anche la speranza a cui mi aggrappo con questa lettera, che magari lei possa aiutarle.

Si presentò con un sorriso largo, aveva pochi capelli, ma la sicurezza di non nasconderli sotto un cappello; gli occhi limpidi, la stretta di mano decisa e i palmi pieni di calli mostravano dita abituate a fare più che a parlare. La guardò e disse:
- Albino Pizzaballa, piacere, lei sarebbe?
Il suo nome le ricordava qualcosa, ma sul momento rispose soltanto:
- Irene Ferragatti, la portiera.
Poi ci pensò, fu un lampo:
- Mi scusi, c’entra qualcosa quel Pizzaballa?
Pizzaballa era la famosa figurina dell’album Panini del ‘63-64. Il grande giocatore era effettivamente un suo parente e non aveva fatto la foto di rito perché influenzato, né a quei tempi fare una foto era cosa da poco. Per questo l’album del campionato di serie A di quella stagione mancava di una figurina che era diventata “leggendaria”, la figurina più ambita tra il popolo di giovani ragazzi appassionati, che amavano lo sport all’aria aperta e non conoscevano ancora le play station dell’epoca dei computer, ma con la fantasia erano comunque capaci di viaggi altrettanto straordinari.
Albino, entrato ormai in confidenza, finalmente rivelò il motivo per cui era venuto:
- Sto mettendo su una squadra femminile per farla partecipare al campionato di esordienti regionale… - dopo un colpo di tosse precisò - …”maschile”.
Irene quasi svenne, ma tenne duro. Non faceva che ripensare alla lettera che aveva scritto, al destino e alla frase catturata in un libro che continuava a vegliare su Barbara e Sara: “Voi siete belle, voi siete speciali, voi siete importanti”.
- Sono qui per le sue figlie… - continuò lui - …un amico comune mi ha detto che fisicamente sono davvero gracili, ma che hanno la grinta di cui la nostra squadra ha più bisogno; perché vogliono far vedere che sono migliori di un ragazzo!
Irene nella piccola casa dove era nata aveva imparato che troppe volte i vestiti buoni si mettevano da parte in un armadio, aspettando invano un giorno che non sarebbe poi mai arrivato. Aver conosciuto Albino le aveva lasciato addosso la stessa sensazione strana e che non provava da tanto tempo. Avrebbe voluto avere ai piedi scarpe meno consumate, qualche goccia del profumo che centellinava nel bagno. Con le dita si accarezzava i capelli appena mossi, erano di un tenue colore castano chiaro, sperava di apparire più carina di quanto si sentisse.

Il tempo volò, i sogni li aspetti una vita e se si realizzano succede tutto in un lampo. Un allenatore abbastanza matto aveva iscritto una squadra femminile ad un campionato maschile. Domenica dopo domenica questa si era conquistata il secondo posto e proprio in finale, a quindici minuti dalla fine dell’ultima partita, incontrando la squadra dei fratelli scimmioni, se avesse segnato un gol, in un colpo solo l’avrebbe scavalcata e vinto il campionato.
Sara si era trovata una quindicina di metri indietro rispetto alla sua posizione abituale, correva a centro campo, scartò un avversario con semplicità, fece una finta e aveva il pallone davanti, poteva passarlo facilmente, ma qualcosa le brillò negli occhi. Barbara, poche azioni prima, aveva evitato un gol fatto, lanciandosi in aria all’indietro e, ricadendo sulla linea di porta, si era rigirata come fanno i gatti quando cadono a terra e recuperano la posizione corretta. Aveva dato però un colpo violento col ventre sull’erba, rimanendo con la guancia sul pallone che avvinghiava stretto tra i guantoni. Sara era corsa per vedere se andava tutto bene e la sorella le aveva solo lanciato un segnale rassicurante, intendeva che sarebbe arrivato il momento, che, in qualche modo e per qualche oscura ragione, la palla che aveva salvato dalla porta ora sarebbe passata a lei, e tra i suoi piedi lei avrebbe capito il momento giusto per valorizzarla, allora le bisbigliò soltanto: “ora custodiscila tu”.
Sara sentì che il momento era arrivato. Non ascoltò i rimproveri di Pizzaballa, si era alzato dalla panchina e voleva che la passasse, ma lei fissò il più grande degli scimmioni, era lì, pochi metri davanti e cercava di intimidirla con un ghigno cattivo: le tese contro la gamba e provò a farle male, ma successe come mille volte era successo nei sogni. Lei, fintando di accentrarsi, di colpo si era voltata e col tacco aveva guadagnato lo spazio sulla fascia sinistra. Albino Pizzaballa non si trattenne, cominciò a correrle al fianco, lungo la parte esterna della linea del fallo laterale, avrebbe voluto gridare: “passa la palla, passala dannazione”, ma la vide saltare un ultimo avversario ed era ormai vicina alla porta; allora si fermò, trattenne il fiato per un istante e poi saltò con le braccia alzate: la palla era entrata, era gol, “uno a zero!”, gridò, quando mancavano tre minuti alla fine. Sembrò che il tempo si fosse fermato per il silenzio che aveva invaso il campo. Avvenne proprio a Roma e per la prima volta: una squadra di donne aveva vinto il campionato giovanile maschile .

Se questa storia fosse un film riavvolgerei il nastro, rivivendo scena per scena come se fosse la prima volta, ma non si può ed è un’immensa tristezza. Resta il ricordo di una città unica con l’ aria pigra di un sabato pomeriggio di fine primavera, vasto e misterioso, in cui grida di vittoria e urla di felicità si perdevano in fretta, lasciandosi dietro solo il fantasma di un’eco. Ho provato a descrivere le mie emozioni in poche pagine. Sono il cronista di un quotidiano sportivo e questa è la sensazione che provo dietro la tastiera adesso, battendo l’ultimo giro di pensieri: nella vita lasci le cose che fai, a volte sono come disegni sulla sabbia, possono essere spazzati velocemente da un po’ di vento o dalle onde del mare, ma alcune storie sono speciali, a furia di ripeterle e raccontarle fanno strani giri e rinascono intatte, custodite da un nuovo cuore che le porterà con sé. Ecco cosa mi è capitato di vedere a Roma di tanto unico e che non dimenticherò mai! Non erano solo ragazze che inseguivano un pallone, ma vedevo anche il loro sogno diventare realtà. La loro mamma continuava a pensare a questo pomeriggio perfetto, quando si ritrovava col secchio in mano e dentro vi scorgeva l’immagine riflessa del Colosseo; passando lo straccio sui mattoni rossi riconosceva le minuscole crepe delle prime cadute sulle ginocchia di Barbara e Sara, sospirava spazzando la polvere leggera che aveva reso i capelli delle figlie più simili alla paglia che a quelli di due principesse delle favole. Eppure adesso la loro favola la inseguono in una scuola calcio a Milano. Così Irene ride, le mancano certo, ma ricorderà sempre la finale, la loro più grande partita. Poi scende per la scala stretta, dove l’ombra fa morire il giorno e proprio lì si ferma un attimo, un leggero baffo di umidità disegna i colori dell’arcobaleno. Non trattiene una lacrima, ricordando i giorni in cui era solo lei a credere in loro e ora, invece, tutto il mondo sa quanto “sono belle, speciali, importanti”.

***

Mr. Onion, Diego Rossi, gennaio 2016.

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Testata giornalistica registrata al Tribunale di Firenze il 15 settembre 2016  n. 6032.
Direttore Walter Pettinati - PROMOITALIA Editore.

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